Il sistema detentivo dei migranti: quello che c’è da sapere sui CPR12 min read

3 Giugno 2024 Cittadinanza Migrazioni Politiche migratorie -

Il sistema detentivo dei migranti: quello che c’è da sapere sui CPR12 min read

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La detenzione amministrativa dei migranti è divenuta, nel corso degli anni, uno dei principali strumenti impiegato dai governi per gestire il fenomeno migratorio. Tutti gli Stati membri dell’Unione Europea, infatti, prevedono – seppur con le dovute differenze legate, ad esempio, alla capienza o al periodo di permanenza – dispositivi volti a disciplinare la detenzione dei migranti e dispongono di strutture in cui trattenerli. Nel corso del 2023 l’Italia ha deciso di potenziare ulteriormente questo strumento: un maggiore stanziamento di fondi, orientato alla costruzione di nuovi centri, e tempi di permanenza più lunghi. Ma andiamo per ordine.

Che cos’è la detenzione amministrativa?

La detenzione amministrativa consiste nel privare un cittadino straniero della sua libertà personale perché sprovvisto di un documento valido per entrare o permanere sul territorio dell’Unione Europea. In alcuni casi è prevista la possibilità di trattenere i richiedenti asilo. È importante sottolineare che questo tipo di detenzione non è collegata alla commissione di reati, che prevedono il carcere come pena per l’illecito commesso, ma si applica per ragioni amministrative, come impedire gli ingressi non autorizzati e consentire alle autorità di rendere effettivo un provvedimento di espulsione, che impone allo straniero di abbandonare il Paese.

Come si applica in Italia?

In Italia questo dispositivo si concretizza nei centri di trattenimento per migranti, istituiti nel 1998, con la legge Turco-Napolitano. Prima denominati Centri di permanenza temporanea (CPT), poi Centri di identificazione ed espulsione (CIE, Legge Bossi-Fini 2002) e infine, dal 2017 ad oggi, noti come Centri di permanenza per i rimpatri (CPR, Legge Minniti-Orlando).

Attualmente sul nostro territorio nazionale sono attivi otto CPR: Milano, Gradisca d’Isonzo, Ponte Galeria, Palazzo San Gervasio, Macomer, Bari, Brindisi e Pian del Lago; a questi si aggiungono Trapani e Torino, momentaneamente chiusi perché resi inagibili dalle proteste dei migranti detenuti. La capienza totale è di circa 1.300 posti e l’unica struttura a disporre di una sezione femminile è quella di Ponte Galeria, a Roma.

Localmente la competenza dei CPR spetta alle prefetture, che attraverso dei bandi affidano l’erogazione dei servizi alla persona a soggetti privati for profit o non profit. Alla questura compete invece la vigilanza e il mantenimento dell’ordine pubblico. Perciò le forze dell’ordine – polizia, carabinieri e militari non specificatamente formati per la gestione di persone in stato di detenzione – sorvegliano la struttura, accedendovi soltanto su richiesta del personale o in caso di emergenza.

Secondo l’art.14 del Testo Unico sull’Immigrazione nel CPR entra lo straniero respinto alla frontiera o nei confronti del quale viene disposto un provvedimento di espulsione quando a causa di impedimenti transitori, materiali o legali, non è possibile eseguire con immediatezza l’effettivo allontanamento. Pertanto, il questore ordina che la persona venga trattenuta nel centro più vicino, e trasmette, entro 48 ore, il provvedimento al Giudice di Pace territorialmente competente per la convalida.

All’interno dei CPR possiamo dunque trovare la persona respinta o individuata sul territorio italiano in condizione di irregolarità, gli stranieri che hanno scontato una pena in carcere e sono in attesa di essere rimpatriati e i richiedenti asilo. Nei confronti di questi ultimi, almeno sulla carta, dovrebbero sussistere maggiori garanzie e il trattenimento dovrebbe rappresentare una misura eccezionale, applicabile in assenza di alternative qualora il richiedente abbia commesso crimini gravi, costituisca un pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica, oppure abbia presentato domanda di asilo in fase di esecuzione dell’allontanamento. Il DL 20/2023, cosiddetto “Decreto Cutro”, ha ampliato le casistiche, introducendo il trattenimento quando necessario per determinare alcuni elementi su cui si basa la domanda di protezione. Sono stati poi aggiunti il mancato possesso del passaporto e la falsa attestazione delle generalità alle circostanze per valutare se sussista o no il pericolo di fuga, che, se fondato, è applicabile anche ai migranti sottoposti al regolamento di Dublino, in attesa di essere trasferiti nello Stato a cui compete l’esame della loro istanza. Infine, il richiedente può essere trattenuto, di norma nell’hotspot e in mancanza di posti nei CPR, se presenta domanda di asilo dopo aver eluso i controlli alla frontiera o se proviene da uno dei cosiddetti Paesi d’origine sicuri.

Per i richiedenti asilo il periodo massimo di trattenimento è di 12 mesi, mentre per gli altri stranieri le nuove norme varate nel 2023 hanno stabilito il limite di 18 mesi: 6 mesi seguiti da proroghe trimestrali nei casi in cui, nonostante sia stato compiuto ogni ragionevole sforzo, l’operazione di allontanamento sia durata più a lungo a causa della mancata cooperazione da parte dello straniero o nei ritardi nell’ottenimento della documentazione necessaria dai Paesi terzi (DL 124/2023, art.20, comm.1).

Per poter accedere al CPR è necessario effettuare una visita medica, al fine di stabilire l’idoneità della persona all’ingresso e alla permanenza nel centro, escludendo pure possibili patologie non adeguatamente curabili in comunità ristrette. Siccome il personale sanitario presente in struttura è assunto dall’ente erogatore dei servizi, per garantire l’imparzialità, la valutazione di idoneità spetta al Servizio sanitario nazionale, quindi alle Aziende sanitarie territoriali. Ai medici presenti nel CPR compete comunque la visita di primo ingresso e il compito di vigilare sullo stato di salute della persona. Nel caso in cui subentrino nuovi elementi sulla salute è essenziale procedere al rilascio di un nuovo certificato di idoneità.

Prima dell’udienza di convalida del trattenimento, lo straniero ha diritto a nominare un difensore e al momento dell’ingresso nel CPR il migrante deve essere informato, se necessario anche con l’ausilio di un mediatore linguistico-culturale, sui propri diritti e doveri, nonché sulle regole vigenti all’interno del centro e sui beni e servizi erogati (Direttiva del 2022, recante i criteri per l’organizzazione dei centri di permanenza per i rimpatri).

I Centri di permanenza per il rimpatrio sono generalmente dislocati in aree più o meno periferiche e la loro configurazione strutturale è simile a quella carceraria: sbarre, alte cancellate metalliche che suddividono i diversi moduli, reti di copertura delle aree esterne, porte blindate e sorveglianze, il tutto però senza le tutele previste per i penitenziari.

Per quanto concerne la predisposizione degli spazi non vi è un preciso modello e proprio per cogliere questo aspetto ed evidenziare come l’impostazione securitaria, che sottostà all’idea della detenzione amministrativa, si trascini “dal fuori al dentro”, citiamo alcuni esempi (fonte ActionAid):

  • Bari: il centro è formato da dieci moduli, di cui sette destinati al trattenimento dei migranti e il cui arredo è basico e rudimentale. Ogni modulo dispone di uno spazio esterno, privo di arredi e protezione dagli eventi atmosferici, e di una sala comune, con televisore e dei tavoli per consumare i pasti. Gli altri spazi comuni sono: una stanza per la scuola e altre attività, un campetto per l’attività sportiva il cui accesso è però interdetto. Non esiste uno spazio adibito a luogo di culto. Tutto il complesso è recintato da una barriera di vetro infrangibile oltre che da una recinzione di cemento armato, alta sei metri, che rende il centro invisibile dall’esterno.
  • Brindisi: è circondato da un muro alto circa cinque metri, monitorato da telecamere e forze armate. Il CPR è diviso in tre blocchi destinati al pernottamento dei migranti ed è totalmente sprovvisto di spazi comuni, il che complica l’organizzazione di qualsiasi attività. I cortili antistanti le stanze sono coperti da un reticolato.
  • Gradisca d’Isonzo: ex caserma sorvegliata da un sistema di videosorveglianza composto da quasi duecento telecamere. Pure qui non sono presenti spazi comuni, ad eccezione della sala mensa, che però non viene utilizzata per timori di disordini.
  • Palazzo San Gervasio: anch’esso non dispone di aree comuni e ciò costringe i migranti a consumare i pasti sui letti, seduti sul pavimento o rimanendo in piedi.
  • Ponte Galeria: composto da più edifici circondati da mura e alte recinzioni, sorvegliati da telecamere. All’interno sono detenuti uomini e donne in aree separate, divise da un corridoio centrale e circondato da recinzioni, che nella zona maschile sono coperte con il plexiglass per evitare fughe. È presente una zona comune attrezzata con tavoli e panche fissati sul pavimento e un locale con televisore.
Nel sito di Action Aid è possibile visualizzare alcune immagini dei CPR

La finalità dei CPR dovrebbe appunto essere il rimpatrio forzato, eppure non sempre questo accade. Il 2022 ha visto transitare dai CPR 6.383 persone, di cui soltanto 3.154 sono state effettivamente rimpatriate, vale a dire il 49,4% del totale dei migranti detenuti (dato in linea con gli anni precedenti: dal 2013 al 2021 la media oscilla dal 45% al 50,88%). Questo perché – al di là di coloro che hanno concluso il percorso detentivo perché hanno ottenuto un titolo di soggiorno valido o per una mancata convalida del trattenimento – rimpatriare una persona, soprattutto laddove viene meno la cooperazione tra i Paesi di origine dei migranti, non è così semplice (di rimpatri avevamo parlato qui). Infatti, osservando la nazionalità dichiarata degli stranieri transitati nei CPR e rimpatriati si nota che la maggior parte proviene da Paesi con l’Italia o l’Unione Europea hanno siglato degli accordi di riammissione e\o cooperazione in merito alle procedure di rimpatrio. In ordine, i primi per numero di rimpatri sono Tunisia, Egitto, Marocco e Albania.

In ogni caso, nonostante le cifre interroghino sull’effettiva utilità dei CPR, nel 2023 il governo ha manifestato la volontà di espandere la capacità del sistema detentivo, fino al raggiungimento di un centro per regione. Ciò richiede inevitabilmente un maggior investimento di risorse; cifre significative se pensiamo che dal 2021 al 2023, secondo il report L’affare CPR redatto dalla Coalizione Italiana per la Libertà e i Diritti civili (CILD), le Prefetture hanno bandito gare d’appalto destinate alla gestione dei CPR per un costo complessivo di 56,67 milioni di euro, esclusi i costi relativi alla manutenzione e alle forze dell’ordine.

È in questo contesto – e in continuità con le politiche di esternalizzazione delle frontiere, ormai da anni convintamente perseguite dall’Unione Europea – che si inserisce il protocollo d’intesa siglato tra Italia e Albania, riguardante la costruzione di tre centri per migranti sul territorio albanese. Il primo nell’area portuale di Shengjin sarà un hotspot, dove verranno perciò svolte le procedure di sbarco e identificazione; a Gjadër sorgeranno invece un vero e proprio CPR e un centro destinato all’accertamento dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale. Il protocollo prevede che la giurisdizione all’interno delle strutture sarà italiana, così come a carico del nostro Paese saranno anche i costi di gestione (circa 34 milioni di euro annui).

CPR: alcune criticità

Gli ultimi cinque anni sono stati accompagnati da ben 14 storie di vite spezzate all’interno dei CPR, sintomo che senz’altro qualcosa nel sistema non funziona, a partire dal quadro normativo, ritenuto “debole” dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale e che per questo non è in grado di offrire tutele sufficienti per assicurare il pieno rispetto della dignità della persona, in ambito di privazione della libertà e che proprio in virtù della sua natura amministrativa e non penale, dovrebbe (…) limitarne l’impatto sulle persone (leggi qui il documento di sintesi). Questo ha avuto conseguenze dirette sulla gestione dei CPR, non soltanto per quanto concerne prassi operative differenti in ogni struttura ma anche per quanto riguarda gli enti gestori. Negli anni, come documenta il CILD nel report L’affare CPR, si è assistito ad una graduale privatizzazione del sistema detentivo, che vede oggi protagoniste società e multinazionali che gestiscono i centri addirittura aggiudicandosi le gare d’appalto con modalità aggressive, ossia proponendo importanti ribassi sui prezzi a base delle aste con il rischio di gravi violazioni dei diritti fondamentali delle persone trattenute. È stata documentata, ad esempio, carenza di personale, malfunzionamento dei servizi essenziali, come assenza di acqua calda, di riscaldamento o del ricambio dei beni di prima necessità (come shampoo e carta igienica) e scarsa qualità del cibo distribuito. Segno di come il fine di questi soggetti appare la massimizzazione del profitto a discapito dei diritti delle persone detenute. Diritti e condizioni di vita difficili da accertare perché i CPR sono inaccessibili: gli unici a poter accedere senza preavviso sono i parlamentari; per gli altri, in particolare associazioni o giornalisti, le richieste di accesso non vengono quasi mai concesse. Su questo il Garante nazionale ritiene che il sistema CPR ha mantenuto nel corso degli anni una sostanziale “opacità” rispetto all’esterno che ha finito per minarne sia l’intrinseca legittimità, sia la funzionalità. Aggiungendo che non si tratta soltanto di una mancanza di trasparenza rispetto alla pubblicazione di dati, informazioni e notizie sui CPR ma di una voluta e persistente mancata osmosi con l’ambiente esterno. Ai migranti viene limitato perfino l’esercizio della libertà di comunicazione con l’esterno, ad esempio imponendo limitazioni sulle telefonate o mediante l’impossibilità ad accedere ai servizi di videochiamata, importanti pure per il mantenimento dei legami affettivi. Inoltre, il mancato contatto con l’esterno prende forma dalle mancate interazioni con il personale, o comunque sempre intermediato da sbarre e recinzioni, vista la prassi di limitare l’accesso ai moduli abitativi.

Rispetto alla qualità della vita dei detenuti, al di là delle conformazioni architettoniche a cui abbiamo accennato e che senz’altro incidono sulla salute psicofisica delle persone, il Garante nazionale rileva la totale assenza di attività e di opportunità di trascorrere il tempo in maniera significativa. L’impostazione securitaria delle strutture di fatto condanna le persone trattenute a vivere in una condizione di permanente ozio forzato, senza possibilità formative, ricreative né di incontri con realtà della società civile organizzata, la quale, ove anche disponibile a organizzare iniziative, si vede regolarmente rifiutare le richieste di accesso alle strutture. Mancanza di attività e vuoto materiale degli ambienti deprivano ugualmente qualsiasi opportunità di autodeterminazione anche relativamente a piccole scelte di vita quotidiana, come quella di leggere un libro, scrivere, svolgere un’attività sportiva.

La mancanza di tutela sanitaria viene descritta come ormai cronica: pessime condizioni igienico-sanitarie delle strutture, inadeguatezza dei servizi di assistenza sanitaria assicurati all’interno dei CPR dall’ente gestore (per esempio nei ritardi nelle cure), ma anche mancata chiarezza del ruolo assunto dal Sistema Sanitario Nazionale. In vari casi è stato provato il mancato svolgimento della visita di idoneità. Ad ogni modo quando vengono svolte, il Garante Nazionale, denuncia il limitarsi all’osservare l’assenza di malattie infettive, omettendo patologie acute o disturbi psichiatrici. È stato riscontrato un numero significativo di persone vulnerabili all’interno dei CPR, nonostante l’ambiente per loro non sia idoneo, quali ad esempio i tossicodipendenti in terapia, le vittime di tratta, le persone portatrici di disabilità fisiche o intellettive, le persone LGBTQ+ e le vittime di maltrattamenti. Altrettanto preoccupante è il diffuso utilizzo di psicofarmaci all’interno dei CPR – documentato da un’inchiesta di Altreconomia – tale da creare vere e proprie dipendenze.

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Laureata in filosofia all'Università di Verona, inizia a lavorare come operatrice nel Sistema di Accoglienza e Integrazione. Frequenta il master migrazione e sviluppo presso l'Università Sapienza di Roma e nel tempo libero studia la criminalità organizzata e scrive articoli di approfondimento sulle migrazioni e sulla criminalità.
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