Intelligenze artificiali e machine learning | Il diritto d’autore tra natura e artificio8 min read

1 Luglio 2024 Società -

Intelligenze artificiali e machine learning | Il diritto d’autore tra natura e artificio8 min read

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Cosa succede a un cucciolo umano abbandonato nella foresta e cresciuto da altri animali? I cosiddetti “feral babies”, bambini selvaggi, esistono anche al di fuori dell’immaginazione di Edgar Rice Burroughs, il creatore di Tarzan, cresciuto dalle scimmie, o di Rudyard Kipling, creatore di Mowgli, figlio dei lupi. I bambini selvaggi esistono davvero ma quelli davvero esistenti e scientificamente studiati sono pochi, per motivi immaginabili: tutti gli altri sono rimasti a casa loro, con altri animali.

I bambini selvaggi tornati tra i loro simili hanno una caratteristica in comune: non parlano (e quindi non leggono, non scrivono, non telefonano, non si lamentano sui social media). Il più famoso e studiato, Victor dell’Aveyron, arrivò a dire poche parole, tra cui lait, latte, ma solo di fronte al latte, cioè senza mai apprendere la relazione tra significante (la parola scritta o udita) e significato che per noi umani diventa naturale se appresa nei primi anni di vita.

Ogni umano apprende dagli altri umani, presenti o raccontati, vicini o incorporati in media, accessibili direttamente o indirettamente. Ne “Lo Splendore”, straordinario romanzo di Pierpaolo Di Mino, Gustav, uno dei personaggi, vive in simbiosi con la biblica Sara, che gli parla uscendo dalla Bibbia per diventare una potentissima voce interiore che lo guida come un burattino. Impariamo gli uni dagli altri, prima di tutto informalmente: ogni genitore che si lamenta della scarsa proprietà di linguaggio dei figli adolescenti dovrebbe prima di tutto farsi un esame di coscienza, perché il linguaggio non si apprende a scuola, ma soprattutto interagendo con chi è intorno a noi.

Intelligenze artificiali e machine learning | Il diritto d’autore tra natura e artificio

Il linguaggio patrimonio dell’umanità

Noi non paghiamo nessun diritto d’autore ad altri umani per tutto questo laborioso apprendimento, e giustamente: è un diritto talmente forte da non dover essere codificato. Mi nutro dei miei simili in ogni istante della mia vita e uso le loro parole, a volte comprandole, sotto forma di prodotto (un libro) o di servizio (un corso, un abbonamento). Il linguaggio è patrimonio dell’umanità e più la tecnologia di distribuzione del pensiero aumenta e migliora più umanità abbiamo a disposizione, perché possiamo conservarla e renderla disponibile. Come scrive Lev Manovich, artista e scrittore molto impegnato nell’osservare i nuovi nuovi media:

Ogni tecnologia per fare arte sviluppata nel corso di migliaia di anni ci rende contemporaneamente ‘meno umani’ (poiché dopo le prime arti rupestri con impronte di mani umane, tutti gli altri ‘media’ portano più mediazione) – e allo stesso tempo ‘più umani’ (più unici, meno simili ad altre specie). Seguendo questa logica, possiamo dire che le nuove forme di intelligenza artificiale ci rendono anche più unicamente umani – poiché ora abbiamo tecnologie che possono spesso replicare le abilità cognitive – e artistiche umane. E questo ci separa ulteriormente da tutte le altre specie.

È arrivato il momento di osservare con cura e attenzione questa strana dicotomia tra naturale e artificiale, perché consideriamo artificiale tutto quello che è stato inventato da noi una volta superata l’infanzia, come se fosse stato imposto da una civiltà aliena e crudele, che invece di offrire soluzioni le impone. Le soluzioni che conosciamo fin da bambini, invece, sono naturali: provate a pensare al ragionamento per cui il GPS ci fa perdere il senso dell’orientamento, perché ci disabitua a usare le carte geografiche. Sono naturali le carte geografiche? Direi proprio di no.

Esattamente come ogni bambino impara da tutti gli altri umani ogni adulto continua ad assorbire, filtrare e remixare tutto quello che impara dagli altri, vivi o reificati in oggetti culturali (artificiali). E oggi che abbiamo creato un software capace di imparare da tutto quello che abbiamo distillato finora abbiamo due possibilità: sottrarre il nostro pensiero (debitore all’umanità) all’addestramento del software o renderlo il più disponibile e digeribile possibile.

Per come la vedo io, se produci pensiero (in qualunque forma) sottrarlo al training è un po’ come rifiutare di essere citato come esempio di uso di una parola nell’Oxford English Dictionary. Perché per paura di uno sfruttamento molto relativo, con nessun rischio effettivo di plagio (cioè di copia identica), rinunci a giocare la tua parte nell’indirizzare il pensiero di milioni di altre persone. Una parte minuscola, chiaramente, eppure una parte. È come negare le parole a un bambino solo perché quel bambino è molto ricco, antipatico e potrebbe farci tantissimi soldi, con le parole ascoltate da te. È come se un bibliotecario rifiutasse un prestito solo perché a chiederlo è il figlio di qualcuno che non ci piace.

Il pensiero patrimonio dell’umanità

Parlare di plagio per il training delle intelligenze artificiali e di furto per l’uso di contenuti protetti dal diritto d’autore rivela una certa incomprensione del senso e dei modi in cui il machine learning funziona, non solo tecnicamente. Ogni dato, ogni testo, ogni immagine, ogni disegno, ogni suono, ogni informazione in entrata aiuta i software a comprendere meglio l’architettura del contenuto, la forma con cui è costruito, non la sua sostanza. Usando le parole di Christopher Warren, architetto che con i suoi pattern e antipattern ha anche aiutato generazioni di UX designer a fare meglio il proprio lavoro, “ogni informazione in entrata aiuta i software generativi a creare la propria senza nome”, cioè un testo, un’immagine o un video coerente con le istruzioni ricevute (e le informazioni date).

Non tutte le informazioni in entrata hanno lo stesso peso, non solo perché hanno valori diversi (una copia della Gioconda rispetto a una mia foto col ditone sull’obiettivo), ma anche perché tutte le informazioni in grado di aumentare la biodiversità del training ci aiutano a gestire i bias che i software rispecchiano se addestrati solo con contenuti mainstream o, peggio ancora, opportunisti.

La qualità senza nome del pensiero, della cultura, dell’arte deve tutto agli altri umani, ma anche alla natura e ai luoghi in cui siamo cresciuti, che sono a loro volta frutto dell’intelligenza umana (o della sua mancanza). Siamo tutti collegati e il pericolo di avere AI che non imparano da tutto e da tutti è uno dei grandi rischi ignorati e sottovalutati.

Il diritto dell’autore

Il diritto di noi autori, che si tratti di ricerca, di arte, di letteratura, di lavoro o di divulgazione, è di poter guadagnare da vivere con il nostro pensiero, ma anche di influenzare il modo in cui i nostri contemporanei e – idealmente – le generazioni future danno forma al loro studio, all’arte, alle loro attività di ricerca, alla letteratura e al lavoro. Nella nostra società il diritto d’autore funziona quando il pensiero ha una forma fisica o performativa: un libro, un corso, un quadro, una mostra. Non è solo una questione di fisico versus digitale, ma anche di lavoro collettivo (quello di un editore) e di replicabilità, per non arrivare a dire scalabilità.

Steal like an artist, il libro che forse più di tutti ci ha rivelato quanto chiunque pensi sia debitore di altri pensieri, ha venduto più di un milione di copie cartacee, con 30 ristampe, ed è stato tradotto e venduto in 27 lingue. Forse il suo furti buoni / furti cattivi potrebbero essere un manifesto valido anche per il machine training, a partire dal “ruba da molti” che è l’essenza stessa del meccanismo di addestramento.

@good theft vs. bad theft

Come scrive James Bridle in Is creativity over?  

La creatività è da sempre un fenomeno sociale, interpersonale e interspecie. Quella che chiamiamo arte umana è rivoluzionata di continuo dall’interazione di esseri e materialità non umani, dalle pitture a olio fino alla fotografia al bromuro d’argento.

E sono d’accordissimo con Francesco D’Isa che nel suo saggio La rivoluzione algoritmica delle immagini commenta questa frase scrivendo

È forse il momento di accorgerci che gli occhiali che indossiamo senza accorgercene stanno diventando così scuri da nasconderci il truismo che ogni opera dell’ingegno è collettiva.

Un mondo di software nutriti dall’intelligenza collettiva è quello che Athos Boncompagni definisce “Lo strumento intelligente”. Un libro coerentemente distribuito anche in Open Access (avrei voluto farlo con tutti i miei libri) e il cui sottotitolo è la sintesi perfetta per un discorso che certo non chiudiamo qui, oggi: difendere la propria creatività dal nuovo luddismo contro le Intelligenze Artificiali”. Perché il vero pericolo, per chi vive del proprio pensiero, è che ci tolgano uno strumento che può far volare la nostra immaginazione e la nostra creatività, che non si fermeranno certo perché c’è uno strumento in più da usare. Con le parole di Boncompagni

la natura umana non è mai stata quella di fare meno fatica per riposarsi e basta ma fare meno fatica in un campo che conosce già per farne magari il doppio su altre direzioni solo perché nuove e sconosciute.

Direzioni nuove e sconosciute che solo l’intelligenza umana può prendere, perché per ora e chissà ancora per quanto siamo noi umani a dire alla macchina cosa deve fare e in che forma. Il tutto ricordando sempre, grazie alla sintesi di Maurizio Ferraris, che

Nel momento in cui le nostre preoccupazioni si rivolgono verso l’intelligenza artificiale, diamo per scontato di sapere che cosa sia l’intelligenza naturale, il che è tutt’altro che ovvio.

Siamo sicuri di sapere con la precisione che chiediamo ai software come funziona la creatività, la generatività artistica, la nascita di nuove idee? E dei debiti che dovremmo pagare, ogni minuto, se davvero applicassimo il diritto d’autore come pensiamo di dover fare con i software?

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Lavoro e faccio ricerca per aiutare le persone, le aziende, le istituzioni a entrare in relazione con i loro destinatari nel modo meno invasivo, manipolatorio e opprimente possibile. Il mio ultimo libro è In principio era ChatGTP, scritto con Alberto Puliafito per Apogeo.
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